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Cina: la situazione degli Uiguri dello Xinjiang

Rainer Feldbacher

Uomini uiguri. Foto: Rainer Feldbacher.

In Cina vivono 56 diversi gruppi etnici. I cinesi Han costituiscono il gruppo più grande (92%) mentre tutti gli altri vengono definiti “shaoshu minzu” (nazionalità minoritarie). Una grande varietà di culture e identità si trova nel sud e nel nordovest della Cina dove il nordovest coincide con il Turkestan orientale (da non confondersi con il Turkmenistan), conosciuto anche come Uiguristan o, secondo la denominazione ufficiale cinese, come Xinjiang. La regione è abitata dagli Uiguri, la cui provenienza e costruzione di identità attraverso la storia è difficile da ricostruire. Mentre le denominazioni care agli Uiguri (Turkestan orientale, Uiguristan) sono proibite dal governo centrale cinese, per duemila anni la regione è stata citata nelle cronache storiche cinesi come Xiyu (regioni occidentali). L’attuale denominazione Xinjiang appare solo nel corso del diciottesimo secolo.

Le origini etniche degli Uiguri possono essere fatte risalire al regno uiguro (744/5-840) situato nella Mongolia nordoccidentale e abitato da gruppi nomadi che parlavano una lingua turca. Successivamente il nome venne a indicare anche gli abitanti sedentari delle oasi costituiti da buddisti, manichei e nestoriani. Nel quindicesimo secolo quasi tutti si convertirono all’Islam. Nonostante la definizione comune “Uighur”, le singole comunità vivevano abbastanza isolate l’una dall’altra nella propria oasi e una migliore o più precisa definizione del proprio gruppo non sembrava essere necessaria. Quando nel diciottesimo secolo la dinastia Qing conquistò la regione dell’odierno Xinjiang sterminò alcuni dei gruppi etnici ma allo stesso tempo ne accolse la maggior parte all’interno di un regno pluralistico. Per rendere più facili i controlli decise comunque di categorizzare i vari gruppi. Così oggi nello Xinjiang vivono tredici diversi gruppi etnici riconosciuti dal governo centrale. Per Pechino più d’uno di questi gruppi rappresenta però una vera e propria spina nel fianco, in primo luogo perché la regione riveste grande importanza per l’economia cinese. Lo Xinjiang copre un sesto del territorio nazionale cinese, possiede circa il 30% delle riserve di gas e petrolio del paese e costituisce un forte richiamo turistico per essere stata parte importante della via della seta. Oggi il governo è impegnato a far rivivere l’eredità della via della seta migliorando soprattutto le infrastrutture presenti – un’evoluzione questa di cui vogliono approfittare anche i cinesi Han.

Durante gli anni di tensione tra Unione Sovietica e Cina, lo Xinjiang fungeva da baluardo contro la minaccia sovietica. Oggi invece la regione è vista come la porta verso i mercati dell’Asia centrale nonché come luogo in cui insediare gli abitanti della sovrappopolata costa orientale cinese o le persone trasferite forzatamente per la costruzione della diga delle Tre Gole.

Pastore uiguro. Foto: Rainer Feldbacher.

Nel 1931, prima ancora della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, le autorità cinesi tentarono di contrastare la crescente influenza degli intellettuali uiguri secolari di formazione musulmana manipolando la dirigenza regionale a proprio vantaggio. I conseguenti scontri violenti videro contrapposti gli Uiguri ai cinesi Han e ai Dungani, conosciuti anche con il nome di Hui (hanhui per “cinesi musulmani”). Gli scontri si tramutarono in una ribellione che coinvolse l’intero bacino di Tarim e portò alla proclamazione della Repubblica Islamica del Turkestan orientale (TIRET). Nel 1933 il militare e politico cinese Sheng Shicai riuscì a reprimere la rivolta uigura con l’aiuto dell’Unione Sovietica e degli Dungani/Hui. Nonostante gli Hui siano anch’essi di fede musulmana, essi si vedono come Cinesi a tutti gli effetti e hanno quindi sostenuto anche militarmente la presenza cinese nella regione. Ciò nonostante e grazie alla pessima rete di comunicazione e di trasporto lo Xinjiang rimase relativamente indipendente dal governo centrale di Pechino fino al 1949.

Gli Uiguri – in origine separati tra di loro da oasi – potevano essere distinti dagli altri gruppi etnici come i Kazaki, Han e Dungani (Hui) per la loro diversità linguistica e culturale e in seguito alla classificazione etnica divennero il maggiore gruppo etnico dello Xinjiang. Coscienti del loro peso iniziarono a isolarsi rispetto agli altri gruppi. E’ interessante notare che inizialmente gli Uiguri venivano associati al buddismo e non, come oggi, all’Islam. Gli Uiguri stessi non si sono mai occupati molto di questo aspetto della loro storia e hanno invece incentivato l’ideologia nazionalista e pan-turca per l’unificazione di tutti i popoli turchi e contro il controllo cinese.

Dopo la Seconda guerra mondiale il governo comunista di Pechino si rende conto dell’importanza economica della regione nordoccidentale e decide di migliorare e ampliare il sistema di trasporti dello Xinjiang. La capitale provinciale Urumqi, collegata al resto della Cina a partire dal 1962, divenne lo snodo ferroviario e stradale principale da cui partono tutti i collegamenti all’interno dello Xinjiang e nel 1992 venne inaugurata la linea ferroviaria (“Iron Silk Road”) tra Urumqi e la frontiera con il Kazakistan. Per molti la nuova linea ferroviaria simboleggiava la speranza di un migliore collegamento anche con l’Europa e di un conseguente boom economico per lo Xinjiang. Di fatto però gli investimenti rientravano nel piano economico e sociale cinese conosciuto come il “grande balzo in avanti” che prevedeva un intenso sfruttamento delle risorse proprio dello Xinjiang e per cui i ricavati vengono dirottati a Pechino.

Donne uigure. Foto: Rainer Feldbacher.

L’attuale situazione degli Uiguri sembra essere più complicata che mai. Dopo diversi, difficili e infruttuosi tentativi di reciproco avvicinamento si è arrivati invece a una situazione di costante tensione tra i vari gruppi etnici. A differenza di molte altre violazioni contro i diritti umani commesse nel mondo, l’Occidente raramente critica l’atteggiamento governativo nei confronti di Uiguri, Kazachi, Kirghisi, Mongoli, Turkmeni e Tagiki. La convivenza tra le diverse culture e gruppi etnici non è mai stata facile e fin dagli anni ’30 del secolo scorso si può parlare di conflitti veri e propri che si ripropongono a intensità variabili. Ma un vero giro di vite avviene con gli attentati terroristici del 11 settembre 2001 a New York. In seguito agli attentati, in tutto il mondo si levarono voci per una lotta decisa al terrorismo e diversi paesi sfruttarono la situazione per ridefinire la loro politica espansiva come lotta al terrorismo religioso. Esempi ne sono l’intervento russo in Cecenia e Ossezia del sud o appunto della Cina in Xinjiang e Tibet. La repressione delle rivendicazioni uigure passa così come lotta al terrorismo senza che vi siano proteste da parte dei cosiddetti paesi occidentali. Le notizie e informazioni a proposito trapelano solo raramente, come per esempio durante i Giochi Olimpici di Pechino del 2008 quando manifestanti tibetani tentarono di attirare l’attenzione internazionale sulla situazione politica e sociale nelle province di Qinghai, Gansu e Sichuan. Le proteste furono sedate nel sangue.

Restano la repressione e la discriminazione dei gruppi etnici, in primo luogo degli Uiguri, in tutti i campi, a partire dall’esercizio della fede religiosa all’educazione, dall’utilizzo della propria lingua all’assistenza sanitaria, nel campo del lavoro, dell’economia, della sicurezza e della tutela ambientale.

Lo Xinjiang, detto anche “la nuova provincia” e la questione uigura appaiono raramente nei media che perlopiù riportano soltanto singoli episodi, come l’assalto con coltelli alla stazione di Kunming (capitale provinciale dello Yunnan) e che le autorità cinesi insistono per liquidare come semplice terrorismo religioso.

Come sempre succede, la realtà è più complicata. Indipendentemente dalle evoluzioni storiche, i motivi che oggi impediscono un allargamento dello statuto di autonomia dello Xinjiang sono fondamentalmente di natura economica. Non solo lo Xinjiang corrisponde a circa un sesto dell’intero territorio cinese, ma pesano soprattutto le stime sui giacimenti petroliferi e di gas presenti nel territorio. Per un paese affamato di energia come la Cina questo è un motivo importante per non concedere maggiore libertà e indipendenza.

La rappresentazione del conflitto fornito dalle due parti in causa non potrebbe essere più diversa di così. Mentre gli Uiguri parlano della repressione della loro cultura, lingua e religione, il governo centrale di Pechino parla di “aiuti allo sviluppo”. Visitando la regione non si può comunque non notare le molte restrizioni imposte alla popolazione. Da decenni il governo incentiva l’insediamento di cinesi Han, i quali, stando a quanto essi stessi raccontano, ricevono nelle “regioni del lontano occidente” stipendi migliori per gli stessi lavori svolti già prima nelle loro regioni d’origine. Nelle scuole dell’obbligo e nelle scuole materne si insegna principalmente in cinese Han Yu (mandarino) mentre la lingua regionale resta circoscritta all’ambito familiare e finisce per indebolirsi. Per avere successo in ambito lavorativo agli studenti uiguri viene raccomandato di studiare sulla costa orientale. Particolarmente interessante è invece il fatto che gli studenti di teologia che intendono diventare akhun (corrisponde all’imam arabo) sono costretti ad andare a studiare a Pechino. Poiché il cinese è per gli Uiguri tuttora una lingua straniera, il sistema a punti che regola l’accesso alle università cinesi è per loro meno rigido. Questo però crea dissapore tra gli studenti e docenti cinesi Han che parlano di un sistema poco equo.

Durante il mio viaggio ho potuto costatare che in generale i cinesi Han considerano la propria cultura come evoluta mentre vedono gli Uiguri come poveri, superstiziosi e feudali, intendendo con ciò spesso primitivi e fanatici. I preconcetti sono reciproci e all’ordine del giorno. Nei mercati delle città dello Xinjiang si vedono cartelli che chiedono di denunciare uomini con la barba, proibiscono alle donne di coprirsi con il velo, ricordano i sentimenti d’amore tra il partito comunista e le persone, richiamano all’unità nazionale contro la violenza e il terrorismo i cui seguaci vengono rappresentati come ratti.

Contemporaneamente il governo vuole rivivificare in modo controllato la cultura e religione regionale. Los scopo è di indebolire sentimenti e correnti nazionaliste ed evitare proteste antigovernative. Pechino per esempio sostiene finanziariamente la hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, dei membri uiguri del partito comunista sperando così di rafforzare il loro status all’interno della comunità e di aumentarne quindi l’influenza politica a livello regionale. La strategia di tolleranza selettiva nasconde però dei pericoli per il governo cinese e non riesce ad evitare le richieste di maggiore autonomia. L’élite intellettuale uigura dal canto suo teme la passività della popolazione e l’allontanamento da un’identità pan-turca a favore di una volontaria sottomissione ai valori cinesi e la sinizzazione culturale della regione. Allo stesso tempo si oppone anche alla crescente influenza kazaka nella regione uigura.

L’opposizione della popolazione uigura al tentativo di imporre una presunta unità nazionale cinese assume diverse forme, da quelle più pacifiche come lo spostamento di due ore dell’apertura dei negozi rispetto all’orario unico imposta da Pechino, a quelle più violente come i già menzionati assalti con coltelli alla stazione di Kunming o agli attentati con bombe a mano avvenuti nel 2014 a Urumqi. La reazione governativa agli attentati è sempre violenta e sanguinosa. A farne le spese purtroppo sono anche i movimenti moderati che subiscono la repressione e censura di Pechino, con rare e solo blande critiche da parte del nostro mondo occidentale.

Che la propaganda governativa funzioni è risultato evidente da molti colloqui avuti con cinesi Han presso le università della costa orientale (Shanghai, Nanjing). In queste occasioni le posizioni e convinzioni espresse sono state sorprendenti e a volte sconcertanti. Da colloqui avuti con docenti universitari è emersa per esempio la convinzione che non ci si può fidare degli Uiguri o più in generale di qualunque persona appartenente a una minoranza musulmana. E poiché la politica del figlio unico (nel frattempo in parte abolita) ufficialmente non veniva applicata alle etnie minoritarie della Cina sembra essersi diffusa la paura alquanto irrazionale che la popolazione uigura musulmana finisca per superare e dominare la popolazione dei Cinesi Han. Si tratta di una convinzione in parte diffusa a modo suo anche in Europa ma che di fronte a una popolazione cinese di oltre un miliardo di persone (esclusa la popolazione delle etnie minoritarie) diventa ridicola per non dire pericolosa. Gli Uiguri invece temono che la forte migrazione di Cinesi Han nello Xinjiang finirà per trasformare gli Uiguri in una minoranza in casa propria.

La posizione ambivalente del mondo occidentale che in modo semplicistico tende ad assegnare categorie ideologiche a tutti e a tutto non è mai stata di aiuto alle popolazioni, soprattutto quando ciò implica il far finta di non vedere le violazioni dei diritti umani commesse a vantaggio dei rapporti commerciali. Se è vero che lo sfruttamento di risorse crea nuovi posti di lavoro, è altrettanto vero che la popolazione dello Xinjiang trova lavoro unicamente come minatore o bracciante agricolo mentre le posizioni dirigenziali restano riservate ai cinesi Han, in particolare se membri del partito comunista cinese, e ai dipendenti delle multinazionali europee e statunitensi. A conti fatti, la questione si riduce sempre allo sfruttamento di materie prime per la produzione energetica lungo la costa orientale, il che probabilmente è anche il motivo principale per non ampliare lo status di autonomia dello Xinjiang

Ufficialmente la Cina parla di “aiuti allo sviluppo”. Sui muri di molti edifici pubblici vengono affisse liste che elencano i molti settori in cui è stata aiutata la provincia e la popolazione, dalla sanità all’istruzione, dalla costruzione di una rete sociale all’approvvigionamento. Per gli Uiguri tutto ciò costituisce una questione più che delicata che li costringe a dover decidere fino a che punto accettare l’assimilazione culturale in cambio di altri benefici. Nel campo dell’istruzione è per esempio vero che esistono alcune, poche scuole uigure ma di fatto per un Uiguro senza una formazione nelle istituzioni cinesi han non vi è alcuna prospettiva di carriera lavorativa. Gli Uiguri che hanno percorso un iter scolastico cinese han e parlano correttamente il mandarino vengono spesso definiti la “14esima nazionalità” (in uiguro ön-tötinchi millät), per differenziarli dalle 13 etnie riconosciute nello Xinjiang. Essi stessi invece si considerano Junggoluq, ossia sia Cinesi sia Uiguri, anche se spesso si sentono isolati ed estranei a entrambi i gruppi.

Tornando agli “aiuti allo sviluppo”, il governo cinese si vanta dei grandi investimenti fatti per la conservazione del patrimonio culturale. Purtroppo l’idea della conservazione spesso corrisponde più al concetto di sostituzione, nello Xinjiang come anche in molte altre regioni cinesi. A Kashgar, storica città uigura lungo l’antica via della seta, l’intero centro storico è stato letteralmente sostituito con una “nuova città vecchia”. Le autentiche e antiche case in argilla con i loro bei balconi in legno sono state demolite e sostituite con case in blocchi di cemento rivestiti di argilla affinché mantenessero il loro aspetto antico. A lavori completati il centro storico assomiglia piuttossto a un villaggio Potëmkin o a Disneyworld, il cui stile è stato evidentemente adattato ai gusti dei turisti cinesi. Una stele davanti alle nuove mura “storiche” della città informa i visitatori degli sforzi e costi sostenuti per il rinnovo e la messa in sicurezza della città vecchia e per il “mantenimento di una cultura secolare”.

Anche la società uigura è molto più diversificata rispetto a quanto potrebbe sembrare a prima vista. Se molti Uiguri fanno corrispondere la loro identità alla fede islamica e considerano irrilevanti anche molti dei luoghi sacri antichi (perlopiù buddisti), tanti intellettuali uiguri decantano il passato della regione, che anticamente era appunto legato al buddismo, al manicheismo e al nestorianesimo. Essi danno invece maggiore importanza all’identità etnica con i popoli turchi (che oggigiorno si sono perlopiù convertiti all’Islam). Da un punto di vista puramente storico ed etnografico anche questa visione presenta però delle lacune. Ripercorrendo a ritroso le radici turche si arriva al 5. secolo (secondo il nostro calendario) e, nello specifico in questa regione, al 9. secolo ma la storiografia dello Xinjiang risale fino a 6.000 anni fa. Ognuno ha quindi tralasciato qualcosa della propria storia, mescolando le parti salvate con elementi mitici e leggendari.

Ma in fondo anche l’antica via della seta conserva un suo alone mitico e leggendario. Attualmente la via della seta sta tornando al centro della politica e dell’economia globale e non solamente per i molti turisti nostalgici e affamati di cultura e avventura che ripercorrono l’antica via. L’ampliamento della nuova via della seta è diventato il progetto economico più importante degli ultimi anni all’interno del quale la regione dello Xinjiang e alcune delle sue città e dei suo luoghi storici ricoprono un ruolo centrale. Da un lato vengono ampliate le rotte attorno al deserto di Taklamakan e dall’altro i molti grandi cantieri aperti nelle regioni montane dello Tianshan lavorano per creare rotte di trasporto veloci verso l’occidente. I progetti e le imprese cinesi non si fermano però alla frontiera e le strade in Kirghistan vengono costruite e ampliate da imprese cinesi e dai loro lavoratori. Altrettanto vale per la posa di stuoie in canna contro l’inaridimento nei deserti turkmeni. Ufficialmente l’ampliamento e la costruzione di infrastrutture cade sotto la voce di scambi commerciali e di risorse nell’ottica degli aiuti allo sviluppo, un procedimento economico che tutti i paesi industrializzati applicano nei paesi più poveri e che la Cina ha avviato in modo massiccio nel sudest asiatico e in Africa.

Il progetto della nuova via della seta non gode però solo di finanziamenti cinesi ma anche europei. Resta solo da vedere se i popoli dell’Asia centrale residenti lungo la nuova rete di trasporto potranno anch’essi partecipare ai profitti previsti o se invece, come nel caso degli Uiguri, subiranno crescenti restrizioni dei loro diritti. Attualmente sembra regnare un certo ottimismo e molti sottolineano i vantaggi che il ritorno in auge della via della seta potrà avere a livello economico. Per chi scrive resta la speranza che oltre al maggiore flusso economico euroasiatico possa rinascere e tornare a soffiare anche lo spirito di apertura e mondialità che caratterizzava l’antica via della seta.

Adattamento, riduzione e traduzione dal tedesco di Sabrina Bussani